Il dono scomodo della consapevolezza
Da quando sto bene, ogni cosa — anche la più semplice — ha un peso diverso. La guarigione non è stata un traguardo, ma una lente nuova con cui guardare la vita. Ho capito che la morte fa paura solo quando è lontana. Quando ti passa accanto, quando diventa reale, allora cambia volto: non è più un nemico, ma una possibilità che impari ad accettare.
Non pensavo in termini di sfida o di vittoria. Non dicevo “ce la farò”, né “non può succedere a me”. Semplicemente sapevo che la morte era una delle possibilità. E se fosse arrivata, l’avrei accolta con la consapevolezza di aver vissuto. Non con coraggio eroico, ma con naturalezza.
Ogni giorno seguivo le indicazioni dei medici, delle infermiere, del personale che mi stava accanto. Facevo ciò che andava fatto, con disciplina, ma senza la convinzione di “combattere”. Era un vivere essenziale, ridotto all’essenziale: mangiare, dormire, respirare, accettare il dolore quando arrivava e la speranza quando faceva capolino. Giorno dopo giorno, senza proiettarmi troppo avanti, senza costruire illusioni.
E così, quasi senza accorgermene, le cure hanno funzionato. Il corpo ha reagito, i valori sono migliorati, la vita ha ricominciato a scorrere. Ma non sento di aver vinto una battaglia. Non ho sconfitto nulla. Semplicemente ho vissuto quel periodo come si attraversa una tempesta: con attenzione, senza ribellarmi al vento, cercando solo di restare in piedi finché non passa.
Ricordo che ogni mattina, appena sveglio, mi facevo la stessa domanda: “Come sto oggi? Potrebbe essere questo il giorno in cui muoio?”. A volte rispondevo “no, non credo”, altre volte “forse sì”. Poi la giornata cominciava, e alla sera mi ritrovavo ancora vivo. E così, un giorno dopo l’altro, ho continuato a camminare su quella linea sottile tra la vita e la fine, imparando a non avere più paura di nessuna delle due.
Da allora, quella consapevolezza non mi ha più lasciato. Vivo sapendo che tutto può cambiare da un momento all’altro. Non è una paura costante, ma una lucidità che mi accompagna, una sorta di bussola invisibile che mi ricorda cosa è davvero importante.
Ma paradossalmente, da quando sto bene, è come se fossi entrato in una frenesia diversa. Fuori dall’ospedale la vita è piena di scadenze, di progetti, di piccole urgenze quotidiane che ti trascinano. Mi trovo spesso a fare mille cose, come se avessi sempre qualcosa da recuperare, come se il tempo fosse un credito che potrei perdere da un momento all’altro.
Mi accorgo che non so mai quanto tempo ho davvero. Ogni controllo, ogni esame è una linea di confine. Non so se il prossimo mese sarà ancora così, se dovrò tornare in ospedale, se dovrò ricominciare tutto da capo. E questa incertezza mi spinge a non fermarmi mai. Voglio sistemare, creare, completare, lasciare le cose in ordine, come se ogni giorno potesse essere l’ultimo giorno utile.
A volte mi chiedo se questa corsa continua sia un modo per esorcizzare la paura o semplicemente una nuova forma di equilibrio. Vivo con l’urgenza di fare, ma anche con la consapevolezza di quanto tutto possa interrompersi all’improvviso. Forse è proprio questo contrasto a tenere viva la mia energia: l’idea che ogni giorno conta, ma che nessuno è garantito.
Quando ripenso a quel periodo in ospedale, sento soprattutto gratitudine. Nei momenti di silenzio, ripercorrevo mentalmente le cose che avevo fatto: i viaggi, le passeggiate, le scoperte, il lavoro a cui avevo dedicato tanto impegno. E mi sentivo orgoglioso. Avevo costruito una vita piena di curiosità, di interessi, di piccoli risultati che, nel loro insieme, davano un senso al mio cammino.
Non ho avuto una compagna, né una famiglia, e non ho molti amici. Ma non lo considero un fallimento. È solo la conseguenza delle scelte che ho fatto, e non ho mai sentito il bisogno di forzare ciò che non sentivo autentico. Ho cercato relazioni vere, non obbligate, e forse per questo sono poche, ma sincere. La solitudine non mi pesa: per me è uno spazio in cui posso pensare e ascoltare.
Negli ultimi mesi ho risentito alcune persone che stanno ancora affrontando la malattia. Alcuni sono stanchi, altri non tollerano più le terapie, altri ancora sono in ospedale e sperano di poterne uscire presto. Ogni volta che sento le loro storie, sento un misto di empatia e impotenza. Non posso fare molto, ma posso esserci: con un messaggio, con una parola, con l’ascolto. Credo che chi è riuscito a stare bene abbia anche la responsabilità di mostrare che si può stare bene. Non per dare lezioni, ma per dare speranza.
Leggere le testimonianze di chi soffre, o di chi non ce l’ha fatta, non è facile. Ti rimette davanti alla fragilità, alla possibilità del ritorno della malattia, alla paura che non scompare mai del tutto. Capisco chi decide di chiudere con tutto questo, di allontanarsi, di non voler più leggere nulla. Ma io no. Io preferisco restare al corrente, continuare a guardare in faccia la realtà.
Non lo faccio per curiosità o morbosità, ma per rispetto. Perché la malattia non appartiene a un altro mondo. È dentro il nostro mondo, fa parte della nostra esperienza umana. La linea che separa chi sta bene da chi sta male è sottile, invisibile, e a volte basta un soffio perché le parti si invertano.
Per questo non voglio dimenticare. Non voglio voltarmi dall’altra parte come se niente fosse successo. Quello che ho vissuto è, in un certo senso, un dono. Un dono scomodo — perché nessuno lo desidera, e nessuno lo sceglie — ma pur sempre un dono. Mi ha costretto a guardare la vita da vicino, a vederla nella sua verità più nuda, senza difese e senza illusioni.
Un dono scomodo perché, appena lo ricevi, tutto in te vorrebbe disfarsene. Vorresti tornare alla normalità, cancellare la memoria del dolore, dei corridoi, delle notti infinite. Ma poi capisci che, se lo fai, cancelli anche la consapevolezza che ti è rimasta. E quella consapevolezza, per quanto pesante, è preziosa.
Oggi so che la vita è fragile, ma anche tenace. So che ogni giorno in cui respiro, cammino, penso e riesco a provare meraviglia, è un giorno che vale. Non per ciò che realizzo, ma semplicemente perché esisto ancora, con una nuova forma di pace.
E se questo è il prezzo del dono scomodo che ho ricevuto, lo accetto. Perché, in fondo, è il dono di sapere davvero cosa significa essere vivi.
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